Communicating the Other across Cultures
Alla fine del 2023 Julia Khrebtan-Hörhager ha pubblicato presso la University of Michigan Press Communicating the Other across Cultures: From Othering as Equipment for Living, to Communicating Other/Wise. Il volume riflette con intensità su una serie di nostri shortcoming nella comprensione degli altri (qui in genere l’accezione dell’alterità è quella di appartenere a un gruppo emarginato perché immigrato o perché comunque non appartenente al mainstream). Il discorso è ovviamente complesso visto che la riflessione sull’essere altro affonda le radici in un passato abbastanza lontano. Montaigne la sviluppa già nel Cinquecento partendo dalla descrizione degli autoctoni americani come esseri inferiori (si pensi alle sue annotazioni sui cosiddetti “cannibali”).
Nei secoli successivi la riflessione sull’altro si è enormemente sviluppata, soprattutto in Europa, basti pensare, per giungere a tempi abbastanza recenti, alla linea francese che nel Novecento ha visto dialogare i francesi De Beauvoir, Sartre, Lacan e Levinas o alla di poco precedente riflessione fenomenologica tedesca di Husserl. Entrambe portano a risultati sorprendenti. Se per Sartre, ne Les Séquestrés d’Altona, 1959, “l’inferno sono gli altri” (ovvero come egli stesso nota in L’être et le Néant, 1943, “il senso profondo del mio essere è fuori di me, imprigionato in un’assenza; altri è in vantaggio su di me”), per Husserl noi non esisteremmo come entità distinte, se non vi fossero gli altri.
Sulla base di questa ricchissima tradizione, alcuni intellettuali statunitensi, ad esempio Toni Morrison, pluripremiata romanziera e docente a Princeton dal 1989 al 2006, costruiscono agli inizi del nostro secolo una teoria dello sviluppo delle posizioni razziali e razziste nel secolo precedente (The Origin of Others, 2017, tratto dalle Norton Lectures). Morrison è una pensatrice estremamente colta, che sa avvalersi della risonanza offertale non solo dall’insegnamento, ma da vari media. La sua posizione si afferma, purtroppo però depauperata di ogni sua ricchezza, e Khrebtan-Hörhager riflette su quanto è venuto imponendosi nel mercato editoriale statunitense. Per valutare meglio le annotazioni della studiosa abbiamo intervistato Matteo Sanfilippo, direttore dell’Istituto Storico Scalabriniano.
Cosa accade quando, secondo alcuni autori, la narrazione dominante del mondo è controllata da una singola entità o da un gruppo di persone? Cosa succede quando l'”Altro” viene messo a tacere, ignorato, considerato inferiore e de-umanizzato?
In realtà, come ben si può intendere dal libro qui discusso, non accade mai che una singola narrazione possa imporsi all’intera popolazione mondiale. Vi è infatti una continua concorrenza tra i produttori di narrazioni dominanti in un determinato periodo e tale lotta impedisce a una di queste di imporsi su scala planetaria. Si pensi alla cosiddetta “Leyenda Negra” che demistifica in tempo reale i supposti meriti della colonizzazione spagnola e ne decreta l’odiosità sin dal primo Cinquecento. Non è frutto della protesta indigena e, da un lato, è lanciata da quegli spagnoli, come Bartolomeo de Las Casas, che criticano la messa in schiavitù e lo sfruttamento degli indios. Dall’altro, è ripresa e diffusa in tutta Europa e tutte le Americhe dagli inglesi e dai francesi interessati a imporre il proprio modello di dominazione e di sopraffazione.
Dato questo tipo di congiuntura, non avviene mai che qualcuno sia completamente messo a tacere. In primo luogo, perché tutti hanno avuto o sono riusciti ad avere l’occasione di far sentire la propria protesta. In secondo luogo, perché c’è sempre qualcuno che vuole far sentire la voce degli sfruttati in modo di danneggiare i propri concorrenti. L’idea di un pensiero unico che tutto domina è una singolare distopia occidentale degli ultimi decenni, che consustanzia la percezione di alcuni cenacoli intellettuali nordamericani, i quali ritengono che il mondo corrisponda esattamente al loro orticello e giudicano ridotti al silenzio quanti non sono in grado di farsi sentire in inglese dall’accademia.
Quali sono le strategie e le modalità con cui gli individui e i gruppi marginalizzati e/o oppressi reagiscono alle voci e alle rappresentazioni dominanti che controllano la loro esistenza?
Beh, in primo luogo si fanno sentire all’interno del proprio gruppo e poi si rivolgono ad altri gruppi vicini. Infine si alleano a coloro che per ragioni varie, anche di mera concorrenza come abbiamo visto, sono disposti a sfidare i produttori di narrazioni più diffuse. Tuttavia anche qui è necessario un caveat fondamentale: spesso quei gruppi oppressi comunque parlano, ma siamo noi a non capirne la lingua, perché non la condividiamo o perché frequentiamo altre arene mediatiche. Riteniamo silenti quelle voci soltanto perché siamo noi sordi e quindi il problema non è di permettere loro di parlare, ma di allenare il nostro orecchio a coglierne le parole.
Cosa accadrebbe se iniziassimo a pensare – e a comunicare – in modo diverso? Saremmo in grado di cambiare il nostro abituale modus operandi di convivenza con l’Altro?
Di fatto il problema non è ridare voce a chi voce già ha, ma sforzarci d’intendere la lingua che quelle voci pronunciano e uscire dai nostri ristretti confini culturali per percepire le ragioni di chi utilizza un idioma a noi forestiero. In fondo è quanto si trovano ad affrontare oggi gli Stati Uniti, incapaci di intendere quel che è detto dalla maggioranza del Pianeta perché non conoscono alcuna lingua al di fuori dell’inglese.
Il maggior merito del libro qui discusso è dunque quello di far riflettere sul vicolo cieco in cui si stanno cacciando un Paese, sordo agli avvertimenti degli altri, e una cultura locale che ha perso il contatto con quanto si pensa in altri luoghi e in altre lingue.