Monsignor Scalabrini e le migrazioni post-unitarie
Dopo il 1861 la riorganizzazione economica di numerose aree regionali del nuovo Regno incentiva nuovi meccanismi di partenza. Il numero degli espatriati cresce, grazie anche allo sviluppo delle ferrovie e delle linee navali, ma soprattutto stimolato dalle difficoltà economiche e sociali del nuovo regno. La grande migrazione dell’ultimo quarto del secolo è il culmine di un processo iniziato da tempo e soprattutto ne conserva alcune caratteristiche, fra cui l’abitudine al ritorno per poi partire e tornare ancora. Nel secondo Ottocento la forza-lavoro eccedente delle Alpi, della pianura padana e dell’Appennino centro-settentrionale migra in Francia e Belgio, oppure in Svizzera e Germania: più raramente nelle Americhe. Tuttavia qui la loro massa è irrobustita da chi abbandona il Nord-Est e il Meridione della Penisola. Chi parte conta di realizzare nel più breve tempo possibile il capitale per investire nei luoghi d’origine, ma non è detto che poi torni veramente nella campagna o nella collina natia. In molti casi i guadagni sono investiti nelle città che hanno iniziato a svilupparsi nel centro-nord, soprattutto Milano, Torino, Genova e persino Bologna, e hanno proseguito a crescere nel centro-sud, in particolare Roma e Napoli.
Secondo i contemporanei, dopo il 1870 inizia un esodo biblico che spopola campagne e montagne. L’impatto emotivo è grande anche perché le folle nelle stazioni ferroviarie e nei porti fanno vedere concretamente il fenomeno. Il vescovo di Piacenza, Giovanni Battista Scalabrini, lo ricorda nel suo primo importante scritto sulle migrazioni: “In Milano, parecchi anni or sono, fui spettatore di una scena che mi lasciò nell’animo un’impressione di tristezza profonda. Di passaggio alla stazione vidi la vasta sala, i portici laterali e la piazza adiacente invasi da tre o quattro centinaia di individui poveramente vestiti” (L’emigrazione italiana in America: osservazioni, Piacenza, L’Amico del popolo, 1887). Il vescovo continua: “Non senza lagrime avevano essi detto addio al paesello natale, […]; ma senza rimpianto si disponevano ad abbandonare la patria, poiché essi non la conoscevano che sotto due forme odiose, la leva e l’esattore, e perché per il diseredato la patria è la terra che gli dà il pane”.
Il fenomeno descritto da Scalabrini non è nuovo: i lombardi, specie i comaschi, partono da secoli. Sotto gli Sforza, i francesi, gli spagnoli, gli austriaci e ora i Savoia chi espatria si appoggia a filiere semi organizzate. Adesso, però, la consistenza numerica degli espatri aumenta e, al contempo, l’ampliarsi del raggio migratorio rende più difficile un costante andare e venire. La procrastinazione del rientro, perché in America si rimane per alcuni anni, porta alla formazione di insediamenti migratori, le cosiddette Piccole Italie, che di nuovo mostrano a tutti dimensioni e caratteri dell’esodo. La comunità emigrata diventa stabile nelle Americhe e in Europa, pur se i suoi membri conoscono una rotazione continua.
In questa fase la Chiesa cattolica monitora con sempre maggiore frequenza la congiuntura migratoria. Tale supervisione origina da diversi elementi. In primo luogo le migrazioni divengono sempre più visibili nella Penisola e in tutto l’Occidente e quindi non possono ignorate. In secondo luogo la Santa Sede, già prima del 1870, inizia a pensare che i flussi dai Paesi cattolici a quelli protestanti (Regno Unito, Germania, Stati Uniti) o anticlericali (Francia, America Latina) possono facilitare la penetrazione nei luoghi di arrivo e inoltre dare un peso nel nuovo contesto sociale e diplomatico a uno Stato che ha perso la propria dimensione temporale.
Nel già citato scritto sull’emigrazione in America, Scalabrini menziona come il ricordo della scena alla stazione di Milano gli richiami un’altra visione: “Io veggo quei meschinelli sbarcati su terra straniera, in mezzo ad un popolo che parla una lingua da loro non intesa, facili vittime di speculazioni disumane”. Tale disumanità può cancellare la loro fede e alla fine persino “quelli che nella rude lotta per l’esistenza trionfano, eccoli, […] laggiù nell’isolamento, dimenticare […] ogni precetto di morale cristiana”. Di seguito il vescovo di Piacenza dichiara “allora, lo confesso, la vampa del rossore mi sale in volto, mi sento umiliato nella mia qualità di sacerdote e di italiano e mi chieggo di nuovo: come venir loro in aiuto?”. Mosso da questo interrogativo Scalabrini scende a Roma, dove trova le autorità vaticane molto ben disposte verso la sua idea, anche perché è considerato sicuro difensore dei diritti dei pontefici. Può così avviare per sostenere gli emigranti in Brasile e negli Stati Uniti il progetto, che darà vita alla congregazione scalabriniana.
Matteo Sanfilippo
Istituto Storico Scalabriniano